Il viaggio nella poesia di Sylvia Plath è quello dell’io che rinasce continuamente attraverso innumerevoli morti. La morte fisica non ne costituisce l’ultimo stadio, infatti il suo suicidio (forse sperava ancora di essere nuovamente salvata?) lo testimonia. Per le radici dei capelli mi afferrò un qualche dio/ sfrigolai nei suoi volt azzurrini come un profeta nel deserto./ Le notti sparirono di scatto come palpebra di lucertola:/ un mondo di giorni bianchi e nudi in un’orbita senza ombra/ Una noia d’avvoltoio mi affissò in questo tronco./ Se lui fosse me, farebbe ciò che feci. Incapace di salvarsi da sola, attende come Euridice che Orfeo vada a riprendersela nell’oltretomba? Ma Ted Hughes, il suo marito-poeta, ha un’altra, e Sylvia lo ha capito dal primo momento in cui Assia è piombata nella loro vita (guarda caso, anche lei si suiciderà dopo sei anni). Cosa ci resta di questo breve ma lungo e faticoso cammino? La poesia di Sylvia, una poesia frenetica, nevrotica, dolce, operosa, proprio come le api che studiava suo padre. Si resta soli con un padre assente, si resta ancora soli con un marito assente. La solitudine è una campana di vetro che ci soffoca. Il vetro è facile da infrangere ma riuscendoci ci si può ferire fino a morirne. Il vetro, quando va in frantumi, rende le parole asce taglienti. Lo zampillo di sangue è poesia/ impossibile arrestarlo! La campana di vetro è la realtà che ci ossessiona, soffocandoci con le sue regole, rendendo il nostro io estraneo a se stesso. La follia o la normalità possono essere le risposte che, in ogni caso, rappresentano la morte della vita. Ci si rassegna all’autorità del padre o del marito, alle ingiustizie della famiglia come della società tutta. Se la morte incombe sull’umanità, la poesia è rigenerazione, ma per una generazione a venire. Cosa c’è di più vero del grido di un bambino?
ennebi
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