Per me era solo la moglie di Francis Scott Fitzgerald, alcolizzata e morta pazza. Lungi da me polemiche fini a se stesse, ma dopo aver letto il suo (unico) romanzo “Lasciami l’ultimo valzer”, Bollati Boringhieri, posso dire la mia su Zelda Sayre (1900-1948). Da adolescente sognavo sui romanzi del marito, che alimentavano il (falso) mito della coppia ruggente come gli anni che la videro protagonista della scena mondana. Dieci anni frenetici, quelli dal 1920 al 1930, che la divorarono. Zelda, infatti, quando scrisse il suo romanzo in manicomio in poco più di un mese, cercava un’altra dimensione di sé, dopo il grande smarrimento. C’è qualcosa che scatta nella testa della donna, la flapper per eccellenza, la musa del grande scrittore, così viziata, affascinante, ammirata, amata e odiata. La lettura del suo romanzo lascia un indicibile senso di amarezza, un vuoto incolmabile: un privilegio negativo riservato solo alle donne. E, Zelda, me l’ha resa vicina, reale. Dietro la spregiudicatezza, l’anticonvenzionalismo, la condotta scandalosa, che cosa cova nel cuore di una donna prigioniera del proprio destino? Un’identità labile, pronta a sgretolarsi, una perenne frustrazione che la risucchia nelle sabbie mobili dell’esaurimento nervoso. E, pure, un magma ribollente di creatività da fare invidia all’osannato scrittore.
Nonostante la fretta con la quale lo scrisse (in solo sei settimane), e le rivisitazioni/manipolazioni del marito, il libro è prova della grande capacità, non solo narrativa ma soprattutto di profonda analisi, di Zelda, oscurate dal gigante della letteratura americana. Quando il talento delle donne viene represso, e si vive all’ombra di un mito, l’amore (ostentato) non basta. Ballerina, pittrice, scrittrice, madre: ruoli mancati. Zelda voleva viverli tutti, questi ruoli, ma non è riuscita a concretizzarne nessuno (se non quello di moglie/accessorio), dovendo rinunciare alla sua parte più bella e autentica. Occupata ad interpretare la parte di se stessa, invidiata, osteggiata, imitata, travolta dalla contagiosa ed evanescente euforia alcolica del suo ambiente, ma in realtà solo spalla del primo attore, Zelda/Alabama, moglie di un pittore di fama, cerca nel romanzo, sognando la danza, di sfuggire alla condanna di uno stile di vita obbligato.
Ultimamente, biografie e film stanno provando, con encomiabile sforzo, a tirare a galla la vera anima di Zelda. Ma essa è bruciata nell’incendio della clinica psichiatrica, dissolta fra incerti ricordi, vacue speranze, illusioni. Icona di eleganza e simbolo della bella vita del suo mondo, artista incompiuta, bella e non sciocca. Mi piace, però, immaginarla volteggiare come una farfalla pur nella solitudine estrema e nella sofferta affermazione di sé. Fragile ma leggera nell’ultimo volo. Nell’ultimo giro di valzer.
ennebi
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Antonella (venerdì, 01 luglio 2022 19:27)
Troppe volte la donna ha sacrificato la propria luce per accendere o far brillare quella altrui. Zelda ne è un esempio. Vivere per il suo amato, a scapito del suo vero essere. Forte scelta, ma, ahimè, poco felice. Grazie Nuccia.
Nuccia Benvenuto (lunedì, 04 luglio 2022 15:12)
Grazie a te, come sempre.