Amo molto leggere racconti, del resto sono stati il mio primo approccio alla scrittura. Quelli di cui voglio parlarvi, oggi, sono di una scrittrice che ha vissuto solo trentaquattro anni ma non è questo, secondo me, l’unico motivo per cui è caduta nell’oblio, comune destino di tante altre. Mi riferisco alla delicata ma impetuosa Katherine Mansfield, considerata sua rivale da Virginia Woolf; cugina di Elisabeth von Armin e amica di D.H. Lawrence e Frieda von Richthofen, Colette, Joyce. La sua vita fu breve ma intensa a cominciare dal fatto che rimase incinta molto presto, tanto che la madre la spedì in Baviera per sfuggire ai pettegolezzi del loro ambiente a Wellington, in Nuova Zelanda e, guarda caso, fu proprio nella pensione in cui soggiornò che Kathe scrisse i brevi capolavori raccolti ne La piccola istitutrice e altri racconti (I classici della letteratura Grandi autrici, Corriere della sera, 2013), nei quali dà prova di un acuto spirito di osservazione del variopinto mondo che la circonda e di una naturale disposizione psicologica. Piccoli dettagli che con la sua sottile lente di ingrandimento diventano rivelatori di una variegata umanità. Un punto di vista sulla vita sarcastico ma profondamente critico delle convenzioni e dei cliché del suo tempo. Come per fissare l’orrore della malattia, messa da parte per fare spazio alla vita in tutte le sue manifestazioni. Anche a quelle che occhi distratti non vedono né sentono.
Non sposò l’uomo che l’aveva ingravidata, ne sposò un altro che però lasciò la prima notte di nozze. Nella sua vita, a seguire, subito: un aborto involontario, un nuovo marito (lo scrittore e critico Jonhn Middleton Murry), un’amante (l’amica Ida Baker), la pleurite e la tubercolosi. Non si è fatta mancare nulla, purtroppo, la nostra Katherine, che inquieta girava da una casa all’altra in Europa.
Io non credo nell’anima umana, non ci ho mai creduto. Io credo che gli uomini siano come tante valigie: riempite di certe cose, spedite, sballottate, gettate in un angolo, posate pesantemente a terra, perdute e ritrovate, d’un tratto mezzo svuotate oppure stipate fino all’inverosimile, finché alla fine l’Ultimo Facchino le scaraventa sull’Ultimo Treno, e filano via sferragliando.
Di certo la sua, di valigia, piena di sofferenze fisiche, di fascino ed eleganza, di felici intuizioni e di tanta inquietudine, si troverà ora nel posto giusto per lei.
ennebi
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