Leggendo il saggio di Adriana Cavarero Tu che mi guardi, tu che mi racconti mi è venuto il desiderio di riprendere in mano l’opera di Karen Blixen. Me la sono sempre immaginata, la Blixen, con le fattezze di Meryl Streep nel film di Sidney Pollack tratto dall’omonimo romanzo La mia Africa, ma, guardandone le foto, devo riconoscere, il suo viso è molto più tenero e meno aristocratico di quello dell’attrice. Del resto, baronessa lo diventò dopo il matrimonio con Bror, fratello gemello del già amato Hans.
Karen lascia la Danimarca, forse per noia, e fugge a Nairobi dove crea l’isola felice della sua piantagione di caffè. Pioniera in una terra straniera ma che sente subito sua, sarà costretta ad abbandonarla dopo il tracollo economico. Porterà con sé i ricordi, primo fra tutti l’amore per il cacciatore Denys Finch-Hatton, che diventeranno la materia prima del suo capolavoro.
V’era un tratto del suo carattere per me veramente prezioso: amava sentir raccontare. Io, per parte mia, avrei dovuto nascere ai tempi della peste in Firenze […] Quando veniva alla fattoria mi chiedeva: “C’è una storia per me?” Io ne avevo preparate tante durante la sua assenza. La sera, disposti tutti i cuscini davanti al caminetto, si approntava una specie di divano; e mentre io sedevo sul pavimento, le gambe incrociate come Sheherazade, lui stava lì sdraiato, attento, ad ascoltare i miei lunghi racconti dal principio alla fine.
Scampata già alla sifilide, trasmessagli dal marito, e poi, tornata in patria, ad una operazione allo stomaco, pubblicherà molte opere, per mantenersi e servendosi di vari pseudonimi; e arriverà a sfiorare, fino alla morte, il Nobel (lo stesso E. Hemingway ripeterà che quello che fu assegnato spettava a lei).
Ma, La mia Africa, non è l’unico film a essere stato tratto dai suoi scritti, fra i quali numerosi racconti nei quali il bene e il male si incontrano: indimenticabile è La cena di Babette. La protagonista, una cuoca del Café Anglais, dopo il fallimento della Comune parigina, troverà rifugio in un piccolo villaggio nordico dove cucinerà stoccafisso per anni alle sue protettrici. Grazie alla vincita alla lotteria, riscatterà la propria esistenza e quella dell'intera comunità con una superba cena degna di tre stelle della guida Michelin.
Quando il disegno della mia vita sarà completo, vedrò, o altri vedranno una cicogna? Sì, Karen, la vediamo. Grazie per averci donato le tue storie, narrate con passione. La tua cicogna. Grazie per averci donato la tua storia. Così appassionata, così intensa da lasciarsi dietro un disegno. Forse è la stessa cicogna che hai ospitato in Kenya?
Per qualche tempo avemmo in casa una cicogna con un’ala spezzata. Era un personaggio risoluto, girava per tutte le stanze e quando arrivava nella mia stanza da letto combatteva atroci duelli contro la sua stessa immagine nello specchio, sbatacchiando e roteando le ali come spade.
La cicogna è il simbolo della primavera e della buona fortuna ma soprattutto della vita, e Karen Blixen, pur condannata alla sterilità fisica, ha lasciato dietro di sé più figli di quanti avrebbe potuto farne nascere da donna fertile. Figli senza tempo, dal fascino immortale, sospesi in una dimensione universale. Storie da narrare e da leggere.
A molti pare assurdo andare in cerca di un segno. Forse perché per riuscire a trovarlo occorre uno stato speciale d’animo, non comune. Ma se si chiede un segno in quello stato di grazia la risposta non può mancare: è la conseguenza naturale della domanda.
Ah, dimenticavo. Io vivo nella Piana di Sibari, dove le cicogne nidificano. Buon segno?
ennebi
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