Negli anni Settanta a scuola nessuno mi ha letto versi di poetesse e, a me che facevo il Classico, nemmeno di Saffo. E come avrebbe potuto, il prof. Bellucci, leggere in classe: Venisti, bene facesti! Io ti bramavo, un refrigerio desti al mio animo ardente di desiderio! Figuriamoci le poetesse del Cinquecento, fra le quali figura pure una cortigiana! Nemmeno erano menzionate nella mia storia della letteratura, comunque all’avanguardia, di Giuseppe Petronio che, con il prof. Gammetta, aveva preso il posto di quella di Mario Sansone. A Vittoria Colonna, Veronica Franco, Veronica Gambara, Isabella Morra nemmeno un misero accenno. E tantomeno a colei che prese il testimone da Saffo: Gaspara Stampa (1523-1554). Bellissima e colta - binomio diabolico per quei tempi -, cantatrice e poetessa, suonatrice di liuto, morta a trentun anni in circostanze sospette (avvelenamento o aborto). La prematura scomparsa pose fine alla promettente carriera e ne alimentò il mito che, tuttavia, venne demolito nel primo Novecento da maldicenze sulla condotta spregiudicata (che coinvolsero anche Cassandra, la sorella grazie alla quale andò alle stampe la prima raccolta della poetessa).
Madonna Gasparina aveva osato parlare d’amore, nientemeno come un uomo, perfino di un nuovo amore che soppianta il vecchio - oggi diremmo l’ex, Collatino da Collalto - al quale sono dedicati i 218 sonetti del Canzoniere - “diario d’amore” lo definì Croce - in cui si compenetrano arte e vita, poesia e resoconto autobiografico. Cosa mai sentita prima nella storia della letteratura italiana, Gaspara scrive in rime contribuendo alla nascita della lirica femminile. Gli uomini diventano l’oggetto dell’amore e del dolore. Ma, insomma, non basta alle donne fare da muse ai poeti? Ora si metton pure a poetare? Se lo fanno, allora, è perché sono avide di sesso!
Gaspara ha la grande colpa di aver ricevuto un’educazione pari a quella dei maschi, di essere indipendente e libera in una società gaudente come quella veneziana. A nulla vale la fedele attesa di Collatino (sempre in guerra) che la piglia e la lascia a più riprese per poi sposare un’altra. Io son da l’aspettar ormai sì stanca,/ sì vinta dal dolor e dal disio,/ per la sì poca fede e molto oblio// di chi del suo tornar, lassa, mi manca. Doveva farsi suora, almeno! E invece no, si innamora di un altro, del quale appare nel sonetto 216, con un acrostico, il nome: Bartolomeo Zen; e lo canta pure. Amor m’ha fatto tal ch’io vivo in foco, qual nova salamandra […] A pena era estinto il primo ardore,/ che accese l’altro amore. […] Un foco eguale al primo foco io sento.
A nulla valsero gli elogi dell’Ariosto e, nell'Ottocento, del Carducci. I panni sporchi si lavano in casa e pure le passioni d’amore. Petrarca avrebbe chiesto perdono; invece la nostra osa: D’arder amando non mi pento!
ennebi
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